“Steve Austin, astronauta, un uomo vivo per miracolo. Signori, lo possiamo ricostruire! Abbiamo adeguate conoscenze tecnologiche. Esiste attualmente la possibilità di creare il primo uomo bionico. Steve Austin sarà un essere nuovo, diverso dagli altri!”
“Migliore?”
“Si, più forte, più veloce!”
In questo modo iniziavano tutti gli episodi della versione italiana di una delle più famose serie degli anni settanta: L’Uomo da Sei Milioni di Dollari.
Nella nostra epoca stiamo assistendo a una serie di fenomeni collocabili in una terra di mezzo, a metà tra la normalità e la patologia, fenomeni che vedono come protagonista il corpo. Pensiamo ad esempio alla vigoressia (o anoressia invertita) dove, in una forma estrema di cultura fisica, il corpo è il mezzo principale per costruire la propria identità, il centro dei pensieri, lo scopo dell’esistenza (l’obiettivo del culturista è la perfezione del corpo, di un corpo scolpito, ipertrofico e poco sessualizzato). Oppure pensiamo al boom della chirurgia estetica, fenomeno che ci mostra come la costruzione della propria identità si posi su criteri esterni, sulla necessità per la persona di vedersi continuamente confermata attraverso il riflesso della propria immagine corporea.
La ricerca dell’approvazione esterna tramite l’apparire è una modalità tipica dell’era postmoderna, dove le persone costruiscono la propria interiorità basandosi sulle esigenze sociali e sulla necessità di essere riconusciuti dagli altri.
Chi si sviluppa attraverso la ricerca dell’approvazione esterna (utilizzando diete, chirurgia estetica, culturismo) potrebbe trovare un ulteriore canale di espressione nella possibilità di poter incorporare dentro di sé protesi artificiali. Le nuove tecnologie, che fino ad oggi hanno permesso di utilizzare ausili impiantati direttamente nel corpo con lo scopo principale di ridurre o superare la disabilità motoria, ora stanno assumendo forme diverse rivolgendosi a chi insegue l’eccezionalità funzionale ed estetica.
Il cyborg, termine nato con una connotazione fantascentifica, è un organismo biologico, integrato con organi o protesi artificiali, è un corpo che attraverso la tecnologia è sofisticato, più potente, veloce e performante ma che risulta in una certa misura ibrido e alterato.
L’ibridazione tra uomo e macchina iniziò ad essere applicata a persone con disabiltà motoria, per consentire movimenti più agevoli e maggior indipendenza. Se tale possibililtà si aprì con ausili separati dal corpo (carrozzine), con lo sviluppo tecnologico si sono rese disponibili protesi da incorporare che non riportano semplicemente a un funzionamento normale ma consentono di oltrepassare i nostri limiti naturali. Pensiamo ad esempio alle protesi di Oscar Pistorius soprannominato “the fastest man on no legs“ (l’uomo più veloce senza gambe), primo ed unico atleta amputato capace di vincere una medaglia in una competizione iridata per normodotati. Pistorius è un un amputato bilaterale, che corre grazie a particolari protesi in in fibra di carbonio, denominate cheetah (ghepardo).
Scrive Naief (2004): “il corpo umano dinnanzi alle istanze poste in essere dalle nuove tecnologie ed alle esigenze che queste ultime pongono anche a livello di rapporti economico-produttivi e dunque sociali, appare obsoleto e si è pertanto portati, spesso in maniera inconsapevole, a sostituirlo con qualcosa di meglio”.
La tecnologia promette risultati spettacolari e sembra consentire di raggiungere uno stato ideale in modo immediato e perfetto. Psicologicamente assistiamo a un processo di trasformazione che, da una parte rappresenta un parziale ritorno a una normalità perduta, dall’altra può costituire il tentativo di accedere a una dimensione “altra”, in una certa misura superiore alla normalità, iperumana.
La possibilità di diventare un cyborg, di giustapporre a sè una parte interscambiabile, sostituibile, artificiale, sembra accompagnarsi all’attivazione di emozioni intense. Accanto a una tecnologia che ricerca protesi sempre più raffinate fa irruzione un nuovo lessico, che testimonia il rifiuto del limite insito nella natura umana. Questi cambiamenti risuonano nei prodotti cinematografici che mostrano emozioni intense rispetto a un possibile futuro da cyborg.
Nel suddetto telefilm, il colonnello Steve Austin, a causa di un incidente durante una missione, perde le gambe, il braccio destro e l’occhio sinistro. Su di lui viene effettuata una ricostruzione bionica all’avanguardia, che sostituisce gli organi danneggiati con altri bionici. La serie prende il titolo dal costo dell’intervento, appunto di sei milioni di dollari. Grazie agli organi bionici, Steve Austin acquisisce delle capacità eccezionali: le gambe gli consentono di correre a velocità altissime, il braccio è dotato di una forza fuori dal comune, e l’occhio permette una visione ravvicinata di oggetti molto lontani.
È molto emozione l’idea di poter diventare un uomo bionico, ma dobbiamo pensare che, per una persona, la soddisfazione di aver incorporato una nuova protesi rischia di deteriorarsi rapidamente, e la progressiva consapevolezza di “smarrire l’emozione” dopo un breve periodo di eccitazione per la novità rischia di guastare il rapporto con la parte protesica e può indurre al rilancio, ossia a una sostituzione della parte artificiale o a una sua modifica con l’inserzione di componenti più performanti.
Pensiamo all’entusiasmo che suscita la realizzazione sul nostro corpo di un tatuaggio, magari agognato per lungo tempo. Passata l’euforia iniziale l’atto in sé perde di significato e può sorgere in noi la necessità di rimuoverlo, oppure quella di rinnovare l’emozione con un nuovo decoro.
Allo stesso modo, la possibilità di recuperare una normalità anatomica e/o fisiologica mediante l’inserzione di protesi può apparire da un punto di vista relazionale un’occasione per accrescere il benessere del paziente con disabilità motoria, ma non possiamo dare per scontato che questo miglioramento si trasformi automaticamente in un aumentato benessere personale. Il trapianto di cuore artificiale, l’impianto di un arto protesico, sono eventi ambivalenti in cui si dispiegano emozioni contrastanti e violente: possiamo aspettarci scompensi rilevanti a seguito di interventi che modifichino lo schema corporeo dove la nuova realtà (es. protesi a una mano) può risultare intollerante. Anche se inizialmente il paziente chiede la soddisfazione di un bisogno, facilemte alla portata di un bisturi, non necessariamente la sua soddisfazione, o il tentativo di tornare a una normalità perduta, può essere visto come la migliore delle risposte. Quello che tocca il corpo, tocca profondamente la persona.
Una mente che si organizza intorno al corpo coltiva un sogno di potere, potenza e perfezione che continuamente le sfugge, è una mente che trae la propria soddisfazione dalla contemplazione di esso, con un controllo autoplasmante dove la persona si ricrea e rinasce attraverso l’attività fisica, la chirurgia estetica, un tatuaggio. La delusione compare inevitabilmente perchè il risultato non corrisponde alle aspettative o, se il risultato corrisponde, l’emozione non è di piena e continuativa soddisfazione.
Incarnare in una persona elementi artificiali causa la necessità di un’elaborazione psichica profonda: “[…] ciò che maggiormente ci sgomenta e perturba non è il diverso assoluto bensì ciò che, pur essendo familiare, improvvisamente non lo è più del tutto” (Freud).
Pensiamo alla storia di Nadya Vessey, alla quale, a seguito di una malattia da bambina furuno amputate le gambe. Ha sembre desiderato nuotare e il suo sogno si è avverato con la protesi coda. Con una coda da sirena, non solo posso nuotare, ma metto in mostra me stesso con un ipercompensazione estetica che colpisce inevitabilmente gli altri. Con la protesi Nadya si identifica con il suo ruolo di nuotatrice, nell’apparire supera la categoria “disabili” che si risolve in un’identità magica e nuova: “È stato magnifico. Ora sono come la sirenetta Ariel” ha detto la nuotatrice non appena testata la sua coda.
In questo senso, oltre a una funzionalità restituita e al piacere del movimento, si colpisce e si fa parlare di sè marchiando nel corpo un’identità. Si tratta di una linea sottile tra funzionalità e ipercompensazione dell’handicap che nelle diverse tipologie di individui possono portare a significati diversi. L’innesto artificiale potrebbe sì diventare il perfetto compimento di un opera, l’affrancamento dai limiti costrittivi del corpo, ma anche l’inutile tentativo di evadere dalla realtà o una forma di fascinazione… perché la vita non è un telefilm di fantascienza.
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Psicologa clinica e psicoterapeuta a indirizzo cognitivo costruttivista, esperta in psicologia giuridica, CTU per il Tribunale di Brescia, formatrice. Si occupa di disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi dell’umore, disturbi dell’apprendimento.