Nel 90% dei casi un bambino sordo nasce da genitori udenti: questi, a differenza dei genitori sordi, si trovano di fronte a qualcosa di sconosciuto e, anche a causa dell’iniziale senso di impotenza e disagio di fronte al deficit diagnosticato, faticano a trovare gli strumenti di comunicazione ideali per interagire con il bambino.
Accade così che il bambino si trovi in un ambiente inadeguato, o meglio povero di stimoli e impreparato alle sue necessità, rischiando l’isolamento e l’esclusione dalle interazioni.
È importante ricordare che ai bambini sordi non manca la capacità di acquisire una lingua, ma solo quella di apprendere in modo spontaneo la lingua parlata, perché essa viaggia sulla modalità acustica deficitaria. Allora come rivolgersi al piccolo? Quale canale usare se non quello linguistico?
Schlesinger (1988) sostiene che non è determinante stabilire l’uso dei segni o della lingua parlata, anche se i segni facilitano gli scambi comunicativi nei primi anni di vita, quando il piccolo tende a servirsi spontaneamente del canale visivo. Ciò che conta è l’intento comunicativo e la ricerca di un vero e proprio dialogo, inteso come scambio reciproco di messaggi, siano essi verbali, gestuali, espressivi… Scambiare messaggi significa condividere dei significati, interpretare e commentare le intenzioni dell’altro, dare risposta ad una richiesta, dando così modo al bambino di sperimentare il successo comunicativo. Non bisogna avere timore ad utilizzare anche il linguaggio verbale, perché insieme ad esso veicoliamo anche molti aspetti non verbali e nel contempo diamo modo al bambino di osservare e conoscere i movimenti articolatori di labbra, bocca e lingua.